di Gianni Guasto
PREMESSA
Da giovane, volevo fortemente diventare psicoanalista. Era -oggi posso dirlo con certezza- una vocazione, l’unica. Dopo la laurea in medicina, conseguii la specializzazione in psichiatria, ma la cosa mi lasciava abbastanza insoddisfatto. Giovane e irrequieto, volevo viaggiare nei territori della mente senza restarne escluso: queste poche parole forse bastano a definire quella che fu la mia percezione della psichiatria, che probabilmente fraintesi, trovandola troppo simile a una qualunque altra specialità d’apparato. Per me, quel titolo di studio fu un semplice passaporto utile a imbarcarmi per un viaggio che speravo mi avrebbe condotto lontano.
Le cose non andarono come speravo. Dopo una prima, appassionata analisi con la quale mi ero liberato della zavorra, ne affrontai una seconda che aveva un preciso scopo didattico. Ma insorsero difficoltà insormontabili, e la mia richiesta di essere ammesso al training fu definitivamente respinta.
Un giorno chiesi al mio secondo analista se ritenesse possibile che qualcuno riuscisse a raggiungere le conoscenze e le capacità indispensabili a esercitare quella professione senza passare attraverso l’«Accademia». “Certo, è possibile" mi rispose. "E’ possibile diventare soldati di ventura, combattendo in eserciti irregolari. Ma è molto più difficile”. In quel momento mi chiesi se ciò che mi sarebbe mancato sarebbe stato soltanto il consenso esterno, che con quello interno rischiava di fare tutt’uno. Ma non avevo scelte, e mi imbarcai per giungere qui dove sono ora.
SOGNO
Alla rispettabile età di settantadue anni, avevo deciso di tornare in analisi. Alla mia età è molto meno facile trovare un analista che ci appaia sufficientemente plausibile come genitore, di quanto non accada da giovani. E tuttavia nel sogno ero contento dell’analista che avevo scelto: un collega italiano che stimo: ha qualche anno meno di me, è competente e autorevole. Ma mentre stavo sdraiato sul lettino provando un piacevole senso di calore, sentivo che chi stava seduto alle mie spalle aveva caratteristiche diverse da quelle del collega italiano. Il nome era lo stesso, ma la percezione emotiva della sua presenza era un’altra.
[Al risveglio ho compreso chi fosse l’analista contenuto dentro l’involucro del primo: un collega straniero del quale sto traducendo un lavoro da pubblicare, che tratta un caso la cui drammaticità ricorda molto da vicino quella che contrassegna la vita di alcuni miei pazienti; un collega la cui sensibilità è molto vicina alla mia. Un altro me stesso, forse].
Durante il sogno, ero sorpreso di non essere in grado di comprendere il senso profondo di ciò che stavo dicendo: ero in modalità “paziente”, anziché in quella consueta, nella quale il mio lavoro consiste in una rêverie che “risogna” i sogni altrui, guardandoli in controluce e da vari punti di osservazione. Ero sorpreso, ma non dispiaciuto.
[Al risveglio ho ripensato al senso di oscurità delle parole da me pronunciate in analisi. Mi è tornato alla mente il fatto che, durante i giorni scorsi ho ripreso in mano alcuni miei vecchi articoli pubblicati tanto tempo fa, che contenevano storie cliniche ancora piuttosto interessanti. Però, leggendoli, ne avevo ricavato la spiacevole sensazione di trovarmi di fronte alla scrittura di un altro. C’era qualcosa di indefinibile, che non riguardava i concetti che esprimevo, né il modo di esporli; ma era come se si fossero sviluppati su di un piano apparentemente bidimensionale, privo di profondità. C’era qualcosa nella loro “anima”, che mi appariva distante e privo di passione. Al tempo nel quale li avevo scritti ero così, dunque? Quando ero stato costretto a rinunciare alla formazione psicoanalitica ufficiale, non capivo che cosa mi mancasse. Ora quell'antico me mi appariva quasi un estraneo].
Poi, i corridoi attigui alla stanza di analisi iniziavano a popolarsi. C’era molta gente, familiari dell’analista. Io dovevo uscire per andare in bagno, forse ero incompletamente vestito, non sapevo che cosa fare.
[L’ingresso in una società psicoanalitica mette bruscamente a contatto con una famiglia estesa. D’un tratto, quell’intimità uterina nella quale si è vissuti fino a quel momento viene riempita di nonni, zii e nipoti, fratelli e sorelle. C’è folla. Qualcuno può non essere pronto a entrare nelle altre stanze].
Poi mi sono trovato fuori, correvo per le strade del centro storico di Genova. Fuori da un bar, c’era una sedia da scrivania montata su rotelle. Era bianca, identica a quella su cui sono seduto ora, mentre sto scrivendo. La afferrai e iniziai a trascinarla con me. Forse avrei dovuto chiederla in prestito, ma non c’era tempo. Continuavo a correre: conoscevo il proprietario del bar, gliel’avrei restituita, avrebbe capito. Poi sono arrivato in una piazza dove penso mi stesse aspettando mia moglie. Guardandomi attorno mi accorgevo che la sedia non c’era più. Non riuscivo a ricordare dove l’avevo dimenticata. Pensai che ormai era troppo tardi per rimediare. Fine del sogno.
[Ho ripensato alla sedia montata su rotelle ricollegandola a quella vista in televisione, in un servizio su “i banchi a rotelle” che il Governo ha acquistato per consentire agli studenti delle scuole di mantenere il “distanziamento sociale” durante la pandemia di Covid 19.
La seduta analitica implica “distanziamento sociale”. C’è una distanza difficile da descrivere fra l’analista e il paziente, mentre c’è una distanza netta fra il paziente e i familiari, consanguinei e non, dell’analista.
Ma che bisogno c’era di rubare una sedia adatta al distanziamento sociale? Ero forse inconsapevolmente alla ricerca del "mio" distanziamento, di un'intercapedine unica, personale, autoregolata? E che distanziamento era se presumevo che il suo proprietario, non trovandola più, avrebbe compreso chi l’aveva rubata e il fatto che l’avrebbe restituita? Con chi potevo condividere fino a quel punto il pensiero, oltre che con mia madre? E se il proprietario del bar non fosse stato l’analista ma un suo parente, suo padre, il capo della famiglia psicoanalitica? Forse che in nonni e gli zii hanno la stessa capacità di rêverie delle madri?
Forse che l’averla smarrita era la conseguenza logica di tutto? Una sorta di nemesi, un’autopunizione, un’allerta a non fidarmi troppo delle somiglianze fra i desideri e la realtà?
Forse che quella sedia, rubata e perduta, alludeva al mancato riconoscimento della mia identità professionale? Forse. Chissà.]
In copertina: Jean Auguste Dominique Ingres, Edipo e la Sfinge. Parigi, Museo del Louvre.
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