(a G., con altrettanta stima e affetto)
Si può fare analisi per anni, e autoanalisi una vita, ma qualcosa ci sfugge sempre.
Non sarò breve e nemmeno ordinata. Racconterò come mi vengono le circostanze che mi hanno fatto “scardinare” quei pochi mesi in cui, all’età di quattro anni, frequentai un asilo di suore.
Due estati fa partecipavo a una giornata sulla Salute Mentale, qui a Lucca dove abito ora, e incontro per caso un collega che vedo di rado. Durante l’intervallo, sulle splendide mura di Lucca, ci sedemmo sull’erba, lui, io e un gruppetto di educatrici del suo servizio, e ci mettemmo a parlare di una tecnica psico-corporea che usa con i pazienti, l’entomia. Per chi non lo sapesse, essa consiste nell’interpretare, o meglio nel danzare, un insetto (mantide, ragno, scarafaggio etc). Una cosa che avevo sempre trovato buffa e strana, finché non studiai Van Der Kolk e i metodi corporei per la cura dei soggetti traumatizzati.
Scherzando gli dissi che avrei potuto interpretare qualsiasi insetto tranne il ragno.
“Sei aracnofobica?” mi chiese. “E perché non ti sei mai curata?”
“Aracnofobica non direi. E’ che non mi piacciono i ragni”.
“Allora sei proprio aracnofobica”. Be’, espertissimo com’è in entomia, si trasformò letteralmente in un ragno gigante e mi venne contro, al che urlai, scappai e per poco non caddi dalle mura.
Dovetti ammettere che, sì, ero aracnofobica.
“Devi curarti. Vieni con noi alle sedute di entomia, fai per qualche volta il ragno così ti passa”.
“Noooo, non posso proprio, non lo farei mai, ne ho orrore. E poi non è che la cosa mi dia fastidio più di tanto, i ragni piccoli non mi spaventano”.
“Ma in analisi ne hai parlato?”
Gli spiegai che sì, ne avevo parlato; era venuta fuori la solita storia della madre terribile arcaica, ma mia madre non era quel tipo, proprio no, e così la faccenda aracnofobia era rimasta in sospeso.
Intanto le educatrici ridevano e mi tessevano le lodi del ragno. C’era anche un paziente che mimava il ragno davanti a me divertendosi a vedere le mie reazioni, che esageravo un po’, tanto per ridere.
Ma il mio collega si era messo in testa di andare in fondo alla faccenda e mi sottopose a interrogatorio serrato.
“Cosa ti fa paura del ragno?”
“Si muove troppo veloce.”
“Ma non è vero! Questo lo dici te”.
“Certo che è vero. Il ragno, vedi, se ne sta lì, fermo. E da un momento all’altro ecco che parte, rapidissimo”.
“E allora?”
“E allora potrebbe venirmi addosso”.
Risate collettive.
“Quindi hai paura di diventare un ragno?”
“No, ho proprio paura di trovarmelo addosso. Perché mai dovrei diventare un ragno?”
Il mio collega (si chiama Mario) mi raccontò allora la storia di Aracne, trasformata in ragno perché aveva tessuto una tela più bella di quella di Atena. Più bella e più vera: vi narrava i peccati degli dei, i loro amori, i loro vizi, i loro inganni. Atena si era arrabbiata proprio.
“I ragni costruiscono tele bellissime. Tu hai sfidato Atena e l’aracnofobia è la tua punizione. Quando e in che modo?”
Un po’ scherzava e un po’ faceva sul serio, in quel contesto così informale.
Ma ecco che mi balza alla mente la risposta, chiara e inconfutabile. Il tramite è stata ... la conferenza che stavo preparando in quei giorni su Nijinski.
Nijinsky tesseva coreografie bellissime, originali, mai viste, incantevoli ma anche di estremo realismo. Il fauno, mezzo uomo- mezzo animale, che si accoppia con lo scialle della ninfa. La Sagra della Primavera: c’è un popolo barbaro che si risveglia dopo il letargo invernale e la prima cosa che fa è sacrificare una vergine! E poi la sua ultima danza, il 19 gennaio 1919, quella di cui non resta niente perché Nijinsky era già scivolato nella pazzia e non fu preso sul serio: danzò la guerra appena finita, i corpi dei soldati morti... E intanto scriveva il suo diario e disegnava, alternando schemi di coreografie a disegni di ragni mostruosi... ragni mostruosi con grandi occhi terribili.
Sì, il ragno può avere a che fare con la danza, e ha qualcosa di demoniaco; è il peccato, è il diavolo.
“Sai Mario, credo di aver capito. C’è un episodio, andavo all’asilo ...”
Le suore quel giorno ci avevano detto di disegnare cosa volevamo fare da grandi. Io disegnai una ballerina. Ballavo sempre, come tutte le bambine, e disegnavo ballerine ovunque, anche sui muri di casa. Ballerine col tutù.
Ero felice mentre disegnavo la mia ballerina. La mostrai soddisfatta a una suora. Ebbene, la suora rimase immobile con una faccia fredda e livida. Vidi avvicinarsi le altre suore, spuntarono dal nulla, parlottavano piano e mi guardavano severe.
“Cos’è questa?”
“Una ballerina”
“E tu da grande vuoi fare ... questo?”
Non risposi. Ero molto spaventata.
“La danza è il diavolo. Tu sei il diavolo”.
Ecco il ragno: sta lontano, non si muove, pare fermo, poi d’improvviso te lo trovi addosso, rapidissimo. Così lo vedo io. Non è tanto innocente quell’animale che tesse le sue belle tele: è il diavolo!
In famiglia non dissi niente, forse ero scioccata. Forse trovai strano che, a casa, non me lo avessero detto che quando ballavo ero il diavolo. In realtà non ricordo di aver pensato niente. Avevo preso atto che ero il diavolo, tutto qui. Però potevo non ballare più e allora non sarei più stata il diavolo. La scena è rimasta, come un film che non mi riguarda, chiarissima. Ho ben chiaro anche il disegno della ballerina col tutù, i volti severi che mi sovrastavano, il silenzio, il gelo, la condanna. La vergogna era entrata dentro e non ho mai più ballato. Ho anche il sospetto di essere stata una bambina un po’ iperattiva, ma da allora diventai molto quieta: lodata, addirittura, per quanto ero quieta.
La storia continua, ma sarebbe una digressione troppo lunga. Diciamo che per riprendere a ballare dovetti andare lontano, in un altro continente, dove danzare è naturale come passeggiare ... ma questa è un’altra storia.
Ho saputo che una vicenda identica è accaduta a una tizia, non ricordo il nome, che ha inventato la “danza espressiva” o qualcosa del genere. Aveva frequentato una scuola gestita da suore e anche a lei dissero che era il diavolo perché amava ballare. Si bloccò dal punto di vista motorio, ma poi si riscattò inventando questa danza molto libera, naturale, infantile.
Fine del diavolo della danza. Mentre raccontavo questa storia a Mario, l’aracnofobia se ne era andata. Il paziente continuava a fare il ragno per spaventarmi, ma non mi spaventava più: “Sono guarita, vedi? Non ho più paura”. E lui contento. Risate. In realtà non amo molto i ragni, nemmeno dopo quella seduta sulle mura di Lucca. Ma sono convinta che la mia paura dei ragni derivi da quel momento preciso all’asilo. Niente madre terribile arcaica, dunque, ma suora terribile arcaica. Buono a sapersi.
Però quel diavolo all’asilo aveva aperto un canale.
C’è purtroppo un altro diavolo collegato a quel periodo così breve e infausto della mia vita.
Questo ricordo mi fa più male. Deve essere accaduto poco dopo. In fondo rimasi in quell’asilo solo quattro o cinque mesi.
Solo aver focalizzato il ricordo del primo “diavolo” ha tolto il secondo dalla pellicola cinematografica della mia storia per ridargli realtà. Perché quella pellicola su cui si imprimono gli eventi di vita sembra un film, certo, ma è molto vera, perché è la base su cui si costruisce la nostra esistenza.
Andavo al mare con una bambina della mia età; non ricordo il nome, chiamiamola Luisa. La sua mamma era amica della mia e chiacchieravano sempre, a volte con aria molto grave. Un giorno sento mia madre e mio padre sussurrare, vagamente capisco che quella famiglia aveva tanto sofferto e che la mamma era contenta quando mi vedeva giocare con Luisa. Sento parlare di cose brutte che non capisco. Mi avvicino, voglio sapere, insisto. La mamma mi dice alla fine che Luisa è “ebrea”. “Che cosa vuol dire?” “Vuol dire che la sua famiglia ha tanto sofferto, ci sono state persone molto cattive con gli ebrei, ma ora non più per fortuna.” Mi sento tanto buona: posso giocare con una bambina alla quale uomini cattivi volevano fare del male, io invece le voglio bene, è la mia migliore amica, allora sono buona. Non sono il diavolo come dicono le suore. Sono buona. Forse le suore mi vorranno più bene.
E così il giorno dopo lo dico, contenta.
“Io al mare gioco con una bambina ebrea”
Gelo.
“Sì, perché tutti volevano far del male alla sua famiglia. E invece io ci gioco. E’ la mia amica”
La mia affermazione non ha l’effetto che speravo, tutt’altro. Mi trovo di nuovo sovrastata dai volti terribili di tutte le suore che anche in questa occasione vengono a raccolta e mi circondano. Un tribunale severo intorno a una bambina di quattro anni che, di nuovo, non sa dove sprofondare né sa perché deve sprofondare.
Un bel po’ di silenzio, poi la sentenza, in nove parole esatte: “Quella bambina è il diavolo. Non devi giocarci mai più”.
Il seguito non ho mai potuto perdonarmelo.
Io e mia madre siamo dirette al mare. “Mamma, posso giocare con Luisa?”
“Certo!
“Allora non è il diavolo?”
“Il diavolo?! E perché?”
“Lo dicono le suore”
“Le suore!?”
Credo che mia madre non avesse proprio capito, che non avesse creduto a quello che dicevo. Mi parve distratta. Non poteva certo immaginare che in un asilo, con bimbi di quattro anni, si usassero parole di quel tipo. Del resto, non glielo avevo mica detto che io stessa ero il diavolo, secondo le suore!
E così, quando mi misi a giocare con Luisa, pronunciai quelle tragiche parole: “Sai, le suore mi hanno detto di non giocare con te perché sei il diavolo. Ma anch’io sono il diavolo, perché volevo fare la ballerina. Tu invece sei il diavolo perché sei ebrea”.
Chissà cosa mi aspettavo. Forse che potesse consolarmi: due “diavoli” che si erano trovati per caso, magari avevamo delle affinità, potevamo aiutarci a vicenda ... magari potevamo capire insieme che cos'era il diavolo, perché non mi era affatto chiaro. Eravamo due bimbe carine e bene educate ... e allora che cos’era il diavolo?
La reazione di Luisa mi lasciò di stucco. Luisa aveva i capelli neri tagliati a caschetto e grandi occhi verdi. Ricordo benissimo quegli occhi farsi enormi e riempirsi di terrore (quel pezzo di pellicola non si è mai sbiadito), poi corse da sua madre piangendo a dirotto. La mamma l’abbracciò. Mia madre corse a vedere che cosa era successo, parlottarono un po’. La mamma della bambina con occhi pieni di dolore rassegnato, la mia si asciugava gli occhi, chiedeva scusa per me, ma lo chiedeva come chi sa che le scuse non bastano. Tre persone disperate! Per colpa mia.
La mamma non mi rimproverò, mi chiese solo spiegazioni. Volle sapere che cosa esattamente avessero detto le suore. Io non ricordo la mia reazione. Se pure ebbi delle reazioni, non so. So che stavo male, profondamente male. So che volevo andare a giocare con Luisa ma lei continuava a piangere terrorizzata e mi respingeva. La mamma mi portò a casa. Non tratteneva le lacrime.
“Perché hai detto quella brutta cosa?”
“Perché lo hanno detto le suore”.
“Le suore hanno strane idee, sono cattive, sì, cattive, ma tu non dovevi dirlo a Luisa. Però loro non dovevano dirti quelle cose, no, non dovevano”. Era gentile, fingeva di essere calma, ma vedevo che soffriva molto. Capii che avevo fatto una cosa brutta, la cosa più brutta del mondo, e irrimediabile.
Da quel giorno i miei non mi fecero più frequentare l’asilo. Mi fecero troncare, di netto, e fecero bene. Non avvisarono nemmeno le suore. Un giorno si sentì suonare il campanello, mia madre si affacciò alla finestra, erano le suore, forse volevano avere notizie. Ma la mamma non aprì, non si fece nemmeno vedere, era turbata, e io ero spaventata. Facemmo finta di non essere a casa.
I miei dicono che ero diventata triste e che ero dimagrita in quei pochi mesi di asilo; non hanno mai saputo della storia del diavolo della danza, e di questo secondo diavolo lo avevano saputo in circostanze tristissime.
Mia sorella, nata anni dopo, da piccola aveva la fobia delle suore: quando vedeva una suora si metteva a urlare e si nascondeva sotto le gonne della mamma. Eppure non sapeva niente di tutto ciò, e con le suore non aveva mai avuto a che fare.
Al diavolo della danza, francamente, non ho mai dato importanza. A questo sì. Per anni ho cercato Luisa per chiederle scusa, ma non l’ho mai più rivista.
Ci si può identificare con la propria vittima? Credo di sì: rispetto alla media so più cose sulla cultura ebraica, volevo un analista ebreo, mi piace la musica ebraica, gli scrittori ebrei , il mondo chassidico (Il cantore della Sinagoga di Ben Ami e il Kol Nidre sono rispettivamente il libro e il brano di musica che preferisco, nel senso che più mi emozionano).
Poi, in seguito, mi sono identificata con tutte le vittime, di ogni tipo. Parteggio per loro, sempre, anche con troppa insistenza.
A volte ho pensato che la mia vita sia stata una riparazione a questo terribile danno che ho fatto, perché se è vero che ero piccola, che non sapevo cosa dicevo, che ho solo riportato il giudizio di un'“autorità” (giudizio che era stato fatto anche su di me, sebbene per altri motivi) insomma, il danno c’è stato, e l’ho fatto io, ne sono stata il tramite attivo.
Ora, conseguenze di quei pochi mesi di asilo zeppi di demoni ...
Mi ribello a ogni demonizzazione di chiunque, e non ho fiducia nelle autorità e nell’ipse dixit. Ho la mania di cercare sempre conferme e disconferme a qualunque affermazione autoritaria. Non mi fido di chiese e dottrine.
Devo sempre confutare e guardare le cose dall’altra parte, dall’altra ottica, cambio sempre posizione rispetto all’oggetto da valutare.
Il giudizio di male e bene per me sono il risultato di faticosi algoritmi mentali, cerco dati, calcolo, e intanto ascolto con attenzione il mio sentire, le mie reazioni viscerali. E’ in un punto preciso dell’ipocondrio che sento il male. Poi devo fare un lento trasferimento alla testa, per farne una traduzione e confermarlo, verificarlo. Ma credo che il mio ipocondrio non sbagli mai.
La mia mente tesse tele, in una sfinente ricerca del realismo più estremo, perché se non sto attenta e la tela è difettosa, essa si rompe e il diavolo può aggredirmi.
So anche che il diavolo è ben nascosto, non si fa identificare, e spinge la gente a cercarlo nell’innocenza.
Il diavolo si nasconde nelle chiese, dicevano a casa mia (prima e dopo l’episodio dell’asilo) Quello che vediamo, non è mai il diavolo, è un surrogato ingannevole, un avatar. Il diavolo si sceglie avatar innocenti: la gente ha più gusto a farli fuori, e teme meno; si sazia, e sa che non ha ritorsioni. Quello vero è nascosto agli occhi umani da una cortina fumosa impenetrabile, fatta di paura che gela al primo avvicinarsi, e dirotta verso altre prede.
In copertina: Igor Stravinsky, Le sacre du printemps, coreografia originale di Vaclav Nižinskij, ricostruita da Milicent Hodson, Polski Balet Narodowy, 2011. Fotografia di Ewa Krasucka.