Ho pensato di ampliare il "controcanto a «Fantasmi in Biblioteca»" riportando una piccola storia che ho sentito per radio, in diretta, dalla voce della protagonista. Si tratta di una donna sessantenne che racconta un doloroso episodio di discriminazione da lei subito nel 1961, all’età di 4 anni. La sua famiglia si era trasferita dalla Sicilia a Torino, e lei fu mandata all’asilo dalle suore. Nella stanza dell’asilo c’era un contenitore con i giochi delle altre bambine “torinesi”. Allorché lei si avvicinò per prendere un gioco, le fu impedito di farlo: “No, tu sei siciliana”.
Non ho potuto ascoltare il resto della storia, ma mi aveva colpito il tono dignitoso e non polemico ma addolorato con cui il racconto veniva fatto, e non potei fare a meno di pensare alle suore di cui ho una discreta esperienza, avendo trascorso quattro anni in collegio.
Io fui trattata sempre molto bene, godendo della protezione di un nonno molto rispettato e presente; ma in collegio con me c’era una bambina orfana: avrà avuto sette, otto anni, e le suore la umiliavano continuamente, mentre io avevo preso a difenderla con veemenza. Questo mio comportamento mi trasformò in una “ragazza non adatta al collegio”. È inutile che dica quanto quell’essere “non adatta” mi rendesse felice, perché odiavo il collegio. Però, pur avendo dimenticato il nome di quella bambina, ogni volta che lei mi torna alla mente, provo dispiacere e rimorso per essere andata via, per aver lasciato sola, in quel posto, una bambina ancora tanto piccola.
Mi interrogo molto sul tema della discriminazione, specialmente in questi anni nei quali l’emigrazione ci pone di fronte tante persone straniere, per vari motivi costrette a lasciare la loro terra per andare a cercare un luogo migliore in cui vivere. Tra l’altro, è proprio di questi giorni la testimonianza, da me raccolta nella stanza d’analisi, di un uomo adulto trasferitosi dalla Calabria a Milano quando aveva soltanto due anni.
Il suo racconto non è diverso da quello della donna di Torino. Erano gli anni Sessanta: non poteva fare il chierichetto, non poteva giocare a pallone, “mi sentivo come un cane randagio che prendi a calci perché ti fa schifo” . Queste storie si somigliano tutte, le parole del rifiuto sono sempre le stesse; sono le parole che oggi sentiamo continuamente ripetere da certi politici, o che leggiamo su certi giornali o sui social. Però, una differenza c’è: oggi il nostro male sono i neri dell’Africa. Nero è brutto, sporco, cattivo. Per noi è il colore del lutto, con il quale rappresentiamo quanto di peggio ci sia. Ma cosa ci si inventerebbe se, per assurdo, da domani i neri scomparissero e il popolo scandinavo dovesse emigrare in massa in Italia? Se una tale cosiddetta “invasione” avvenisse per opera di individui civili, biondi con gli occhi azzurri? Di quale “razza” saremmo costretti a lamentarci per avere un altro capro espiatorio a giustificazione della nostra incapacità di fare i conti con gli imprevisti e con chi è diverso? Del resto gli ebrei, laboriosi, colti, puliti e spesso ricchi sono stati un “capro espiatorio” sin dal medioevo, per arrivare al secolo scorso, quando non solo la Germania nazista, ma anche molti paesi europei contribuirono a sterminarli.
D’altra parte, ancor oggi c’è chi li accusa di organizzare complotti contro il mondo, quasi a giustificare i massacri che furono costretti a subire. Ecco, per quanto m’impegni, non riesco proprio a comprendere la provenienza e la misura di un senso di colpa che affligge l’Umanità, al punto che si debba incessantemente cercare qualcuno su cui riversarlo; e non basta mai. Siamo totalmente incapaci di sopportarlo. Tra l’altro, “colpa” è una delle parole più usate, risuona continuamente intorno a noi, e spesso anche in maniera inappropriata. A tale proposito mi viene in mente un piccolo sogno che feci tanti anni fa, all’epoca della mia prima analisi: mi trovavo in un sottosuolo, davanti a un massiccio cancello di ferro che immetteva in una piccolissima stanza semibuia, la cui illuminazione proveniva da una finestra larga quanto una fessura, posta su, in alto. C’era, disteso su un pagliericcio, uno strano essere che era un misto di animale e paziente psichiatrico. Io aprivo il cancello, poggiavo per terra un piatto con del cibo e uscivo richiudendo il cancello. Era orribile. Non ricordo bene le mie sensazioni di allora, però so di aver da subito preso le distanze da esse: la cosa non mi riguardava. Non ho mai dimenticato quel sogno, che rimase, al pari di altri, sempre presente nei miei pensieri. Nel tempo chiamo quello strano essere "il mio mostro interno”, e ancor oggi mi fa molta compagnia. Negli anni, lavorando con i pazienti mi è capitato spesso di ascoltare sogni diversi che rimandavano allo stesso significato. Esso alludeva sempre ad aspetti totalmente inaccettabili della personalità di chi li sognava. Mi sono sempre impegnata molto affinché i sognatori potessero riconoscersi nei loro mostri, e che ne riuscissero persino ad apprezzare la ricchezza. Ci sarebbero davvero tante cose da dire su questo argomento: mi limiterò a ricordare che se io non riconosco il mio mostro, allora il mostro sei tu; e, se tanti mostri si incontrano, finiranno per formare un grande mostro sociale inconscio, la cui capacità distruttiva risulterà imponderabile. Ecco, la storia dell’umanità si direbbe popolata da questi mostri, uno dei quali mi sembra di vedere in questi tempi di angoscia e confusione. E vorrei che fosse chiaro che non sto parlando di politica.
In copertina: Alberto Savinio, Annunciazione (1930 circa). Milano, Casa Museo Boschi Di Stefano.