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TRASGREDIRE I CONFINI


Ho appena ritrovato questa mail che avevo indirizzato ai soci della SIPeP-SF a fine dicembre 2016. La riposto qui perché mi sembra argomento degno di riflessione.

Cari amici e colleghi,

Oggi, Santo Stefano, desidero condividere con voi una riflessione che mi sembra pertinente alle preoccupazioni e alle ansie di chi, come noi, si appresti a un'impresa poderosa quale è la costruzione di una istituzione psicoanalitica che risulti capace di sottrarsi alle insidie dell'istituzionalizzazione.

Questo è, probabilmente, un vecchio sogno adolescenziale di matrice anarchica, che come tutte le utopie, presto o tardi è destinato a presentare il conto. Ma tant'è, si viaggia più per il gusto di viaggiare che per quello di arrivare da qualche parte.

Mi trovo a trascorrere una decina di giorni di vacanza a Vienna, in compagnia dei numerosi parenti di mia moglie, che appartengono a una famiglia libanese qui da decenni emigrata.

Chiacchierando con un Georges, giovane e brillante nipote ventinovenne laureato a Londra, si discute di molti argomenti e si finisce a parlare di psicoanalisi.

Fra le altre cose, mi capita di osservare che, a mio giudizio, l'arrivo di Internet, degli SMS, di Facebook, di WhatsApp, abbia cambiato o stia cambiando non poco la relazione terapeuta-paziente, per via di una certa mobilità di distanze che intercorrono fra una seduta e l'altra. E poi c'è -non bisogna dimenticarlo- l'alternativa, da un lato imbarazzante e dall'altro intrigante, di Skype.

Insomma: ce ne sarebbe abbastanza per gridare alla fine del setting. Ma ciononostante, il mondo va avanti secondo la propria piega, davanti alla quale possiamo fare sempre troppo poco, quando non decidiamo di assecondarla.

Il mio giovane interlocutore è molto brillante e avveduto, e parla l'Inglese cento volte meglio di me. Mi pone domande ficcanti, che in qualche modo mi mettono in imbarazzo, forse perché, al momento, la memoria ballerina non trova il vocabolo giusto, forse perché l'incompleto possesso della lingua, costringendomi a una continua traduzione mentale, soffoca un po', per mere ragioni di spazio, il libero fluire dei pensieri.

Georges non me lo dice, ma io sospetto che della psicoanalisi abbia una qualche esperienza, e nemmeno troppo casuale, perché va immediatamente al punto cruciale: e dei limiti, dei benedetti e famigerati boundaries che cosa si fa? Ti sei mai trovato a essere travolto dalle richieste fuori tempo dei tuoi pazienti? E tu come hai risposto? Ti sei lasciato travolgere o hai resistito? E della necessità di rispettare i confini che ne è stato? E poi, domanda delle domande: ma tu sei per caso uno che "si porta il lavoro a casa"?

Si: le mie risposte sono state certamente vaghe, e la lentezza dell'eloquio in lingua straniera è stata inciampo, ma anche rifugio: avevo bisogno di più tempo per pensare: in Italiano, naturalmente.

In realtà, avevo una qualche esitazione nel dire a Georges che pur considerando il rigore sperimentato durante due lunghe analisi personali come un'esperienza centrale della mia vita che mi ha consentito di mettere ordine nella mia vita mentale, oggi mi trovò davanti alla necessità di trasgredire (non troppo!) quelle regole.

Per anni ho dovuto convivere con il muto ma persistente rimprovero interno proveniente dalla voce dei maestri precocemente introiettata, che mi richiamava a un ordine che può essere trasgredito soltanto da chi risulti "ancora nevrotico" (qualunque cosa ciò voglia dire, e ammesso che la "nevrosi", intesa in senso lato, sia uno stato mentale dal quale è possibile uscire definitivamente). Per anni ho convissuto con quel rimprovero, ma un irriducibile Lucignolo in me ha sempre pensato di tollerare la reprimenda, senza mai decidere seriamente di "diventare grande".

Avrei avuto difficoltà a rispondere a Georges che non mi è mai capitato di andare incontro a inconvenienti nell'elaborazione dei processi di separazione con i miei pazienti, che hanno la possibilità di interpellarmi fra una seduta e l'altra, perché forse sarei risultato sospettabile di eccessiva indulgenza verso me stesso. Avrei avuto difficoltà a spiegare a Georges, perlomeno in Inglese, che non ritengo la "passione della cura" (questo è il titolo del mio libro recente), una forma di nevrosi, un attaccamento coatto al lavoro, un rifugio della mente. E neppure "Furor Sanandi" (anche se un certo carattere febbrile me lo riconosco volentieri).

Mi è capitato di scrivere degli "Interstizi del tempo dell'analisi", proprio durante tali interstizi, come facciamo tutti, credo, quando scriviamo dei nostri pazienti o ne parliamo con colleghi e supervisori. O con noi stessi. Quando ero "piccolo" avrei voluto sempre chiedere all'analista se aveva pensato a me durante il fine settimana, ma non ho mai osato, perché mi sembrava un gioco-scontro, peraltro scontato, fra un illusione narcisista (e forse una carenza) e la regolamentazione, per via di frustrazione, della stessa.

Io invece ora dico ai miei pazienti: "leri sera ripensavo a quanto mi aveva detto ...". Bè, la cosa non ha mai creato particolari disastri.

E poi, perché mai, se la rêverie è "sogno di un sogno", dovrebbe rispondere a tempi obbligati? Chi dice che si debba pensare a un determinato pensiero soltanto entro un certo arco di tempo, e non liberamente "fuori" da quei "boundaries"? Oggi incontrerò di nuovo Georges, che ha promesso di accompagnarmi in un fantastico jazz club, perché conosce i miei gusti.

Penso che gli parlerò ancora dei benedetti/maledetti confini, aggiungendo che nessuna "analisi" può sottrarsi al proprio destino di ricerca.

Ciò che è già compreso entro i confini è soltanto il già noto. Per andare alla scoperta, bisogna espatriare, trans-gredire.

E in fondo esisterebbe la psicoanalisi senza confini che furono violati? Quali e quante regole trasgredì Freud? L'elenco è lungo: dalla Legge Ebraica (rifiutò di circoncidere tre figli maschi); alla Morale (introdusse la sessualità infantile e la sessualità in generale come pensieri degni d'essere pensati), alla Scienza (rifiutando i paradigmi neurologici), e infine a quella storia dell'Io che non è padrone a casa propria.

Bè, io non sarò Freud, ma proprio fermo dentro le mura della mia stanzetta non vorrei rimanere.

Buone Feste a tutti.


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