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Pina Sciommarello

LA LINGUA IN ESILIO


G. è una donna di mezza età, che svolge un lavoro impegnativo che le ha dato nel tempo molte soddisfazioni e riconoscimenti. Ha avuto incarichi di responsabilità e dirigenziali, grazie alla sua capacità organizzativa e di gestione di situazioni complesse. Da qualche anno si trova nella strana situazione di non riuscire a “parlare” quando si trova a collaborare con persone di un particolare gruppo. Quando è con loro non riesce a trovare le parole, i vocaboli per esprimersi. È come se improvvisamente non sapesse parlare: il suono stesso delle parole sembra sconosciuto, come se fossero “straniere”. Avverte dentro di sé la sensazione di una “mancanza di tenuta”, come se scattasse a un certo punto un “cambiamento di registro”. Non riesce a comprendere perché le accada questo, sente un profondo senso di smarrimento che la spinge a dubitare delle proprie capacità cognitive, della capacità stessa di parlare. Nei percorsi terapeutici precedenti aveva contattato i vissuti dolorosi, ripercorso i momenti traumatici della propria vita e riconosciuti i traumi relazionali vissuti. Ma le sue capacità cognitive non erano mai state messe in discussione, anzi, esse erano state più volte confermate dai successi, prima scolastici poi lavorativi, che aveva raggiunto. L’incapacità di esprimersi nel gruppo creava un circolo vizioso, alimentando ansia, senso di persecuzione ed elementi paranoici.

Sicuramente il vissuto di G. è collegato a ciò che accade in quello specifico gruppo e ad aspetti dinamici che circolano in esso; ma soffermarsi su essi e darne una lettura non è l'intento di questo breve racconto. Vorrei invece cercare di esplorare gli eventi traumatici che la dinamica di gruppo è andata a intercettare.

In un incontro con G., attraverso una serie di condivisioni e libere associazioni, è emersa una moltitudine di ricordi, di cose nascoste, inaspettate che hanno dato vita a collegamenti tra i personaggi e a connessioni impensabili; una costruzione di una narrazione nel tentativo di dare nuove espressioni alle esperienze traumatiche vissute. Queste avevano lasciato una traccia profonda sulle sue capacità linguistiche e sul funzionamento della sua mente.

G. insieme alla sua famiglia e alla famiglia della madre, si era trasferita da un paese del sud Italia, in un piccolo paese della Toscana; un paese, questo, in cui tutti conoscevano tutti, e ogni famiglia apparteneva a un gruppo sociale che si “tramandava” dai genitori ai figli.

Racconta che negli anni settanta-ottanta si respirava un clima di discriminazione; le persone che emigravano dal sud erano viste come delinquenti, sporche, brutte persone che “rubavano il lavoro” a quelli del nord. Sui muri si leggevano scritte come ad esempio “morte ai meridionali”. Eppure quella di G. era una famiglia riservata, onesta, rispettabile, che nulla aveva a che fare con le descrizioni che si davano dei meridionali. In quella visione sociale che le veniva rimandata non riusciva a riconoscere la propria famiglia. Ma il confronto con la realtà delle cose a nulla sarebbe servito.

G. aveva cinque anni al momento del suo trasferimento: ricorda la sensazione di smarrimento nel trovarsi in un altro “mondo”, così diverso da quello conosciuto. Il trasferimento portò un cambiamento totale negli equilibri e nelle abitudini famigliari. Fino ad allora la sua famiglia era data dai componenti della famiglia allargata, i cui componenti erano tutti importanti, mentre le funzioni materne e paterne erano rivestite da più membri della famiglia. Ora invece si trovava a vivere con la sua famiglia, “ristretta”. Forte fu il senso di smarrimento, sentiva che doveva crescere, doveva “lavorare”, aiutare la sua famiglia, rendersi adulta. Il “poppante saggio” era all'opera.

Pochi mesi dopo iniziò il suo percorso scolastico. Ricorda la fatica di trovare le parole per esprimersi in italiano: in fondo, il dialetto era la sua “lingua madre”. Non ricorda però come si fosse sentita all'interno della classe, e se le sue difficoltà fossero state motivo di imbarazzo o vergogna. Ciò accadde forse perché ben presto riuscì a distinguersi dal resto dei compagni per la sua capacità di apprendere e per la sua intelligenza intuitiva.

Ma qualcosa le diceva che non era andata proprio così ... I sentimenti di emarginazione, inadeguatezza e inferiorità vissuti nel gruppo-classe erano stati probabilmente dissociati.

L’emergere di ricordi di piccoli fatti accaduti permise di contattare la vergogna pervasiva vissuta sin da piccolina per essere stata meridionale, per il dialetto parlato, per un senso di vergogna della propria famiglia e delle proprie origini. Acquistavano ora un senso ulteriore i sentimenti di ingiustizia e di rabbia che erano stati invece così manifesti durante la sua adolescenza, Esse nascondevano un dolore più profondo. L'identità, nel senso più ampio, era stata danneggiata. Aveva rinnegato per tanto tempo non solo chi era, ma anche le proprie origini, le proprie radici; aveva rinnegato il gruppo-madre. Eppure gli altri membri della famiglia non sembravano aver risentito delle discriminazioni vissute; e allora perché per lei tali eventi avevano creato così tanta sofferenza? Perché i riconoscimenti avuti nel tempo, non sembravano mettere radici?

È probabile che Il trauma sociale fosse andato a impattare con vissuti traumatici legati alla relazione con le figure significative, alimentando così vissuti di rifiuto, abbandono, disconoscimento.

I tasselli ritornarono al loro posto. Tutto sembrava ora ricomporsi in una visione più integrata del mondo interno di G.

Dare significato e integrare i vissuti legati al cambiamento dell'ambiente in cui la sua infanzia era trascorsa con la situazione sociale del “nuovo mondo” in cui G. si era trovata, permise così una visione complessa e maggiormente arricchita dei fatti della sua vita e di come questi avevano inciso nella formazione della sua mente.

Mi chiedo: perché tutto ciò non era emerso nelle analisi precedenti? Per una questione di approcci diversi? O perché il paziente, come ben sappiamo, necessita di un proprio tempo per poter toccare eventi traumatici? O forse sono le aree cieche dell'analista a non consentire che si raggiungano alcune zone, che rimangono però li, in attesa di trovare spazio e modo per esprimersi, in attesa di una narrazione?

In copertina: Vincent Van Gogh, Campo di iris (particolare), 1889. Paul Getty Museum, Los Angeles. Riproduzione fotografica di Pina Sciommarello.


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