“Adottare l’umano” ha detto ieri una filosofa presente alla prima giornata di studio sul trauma: queste parole mi sono giunte come la sintesi di quanto era stato raccontato in tutta la giornata. E’ stato così ieri e ancora di più lo è oggi che le sento riecheggiare come se fossero il cuore del mio pensiero analitico. Non parlo da cristiana, io mi definisco atea, e non mi sento nemmeno una “buonista” come di questi tempi vengono definiti tutti coloro che spendono qualche pensiero o azione a favore dello straniero “umano” sofferente, però mi sento un abitante “umano” della terra che cerca continuamente di trovare un piccolo spazio per vivere laddove vivere diventa sempre di più una parola troppo grossa per poterla onorare.
Ieri, al suono di queste parole, ho visto spuntare davanti ai miei occhi il massiccio della Maiella, quel sasso gigantesco che la sera, quando ero bambina, diventava la culla del sole. Stamattina, al risveglio, ho compreso il senso di quella immagine e quindi la dimensione e il peso di quanto che era stato detto. Niente di più lontano dalla cultura sociale in cui mi trovo a vivere. Io sono nata pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale e dalle mie parti le persone, il pomeriggio e le sere d’estate, stavano fuori a chiacchierare, raccontavano storie mentre noi bambini potevamo giocare liberamente senza alcun controllo e le porte delle case restavano aperte. Non c’era nemmeno la televisione ma solo la radio che spesso era l’unico diversivo alla conversazione. Noi bambini potevamo entrare nelle case dei vicini ed eravamo accolti come dei figli, talora ci preparavano la merenda, ci medicavano un ginocchio sbucciato anche con qualche rimprovero se non c’era un familiare presente: in sostanza c’era sempre un essere umano disposto a soccorrerci. Oggi, mi guardo intorno e vedo tante immagini da film “Her” dove una moltitudine di persone, tutte sole, cammina indaffarata alle prese con il proprio cellulare e dove il protagonista, uno scrittore, finisce per innamorarsi di Samantha che è la voce di un sistema operativo di accudimento. Poi, se la sera accendo la televisione, mi ritrovo davanti ad immagini di violenze di ogni genere e ascolto parole insolenti e denigratorie nei confronti dei nostri vicini più sfortunati che sono costretti a fuggire dalle guerre, dalle torture e dalla fame e che vengono lasciati morire in mare perché bisogna “salvare l’italianità”. E mentre tutte queste immagini di povertà e dolore mi passano davanti agli occhi ascolto qualcun altro che racconta del fiorire di pasticcerie, negozi vegani e abbigliamenti firmati per animali domestici. Circa un mese fa ho incontrato il mio vicino di casa al parcheggio (è stato operato di tumore 2 anni fa) e alla mia domanda sulla sua salute ha risposto con la solita ironia: “In casa c’è una tragedia per l’operazione della canina, per me… niente quando mi sono operato” e scuoteva la testa. La canina era stata sterilizzata. Ho colto anche una certa tristezza nella sua voce e non ho potuto fare a meno di pensare che noi umani, appunto, ci arroghiamo il diritto di fare dell’animale uno schiavo che sottostà, purtroppo senza proteste ai nostri voleri, e a tale proposito mi sono ricordata che tanti anni fa noi avevamo un cane che, a detta del veterinario, doveva essere tosato d’estate e lo facemmo. Il cane, dopo la tosatura, per due giorni andava a nascondersi, sembrava che si vergognasse. Non è stato più tosato ovviamente.
Mi chiedo cosa ci stia accadendo e se la nostra incapacità di amare in maniera un po’ più sana l’animale che c’è in noi non ci spinga a rivolgere questo amore verso gli animali ma, anche se così fosse, siamo a dir poco arroganti perché in nome dell’amore li riduciamo a balocchi, oggetti narcisistici atti a soddisfare bisogni e desideri. E’ anche vero che la relazione con un altro umano non ci dà tutta la libertà che possiamo permetterci con gli animali, non lo possiamo chiudere dentro per intere giornate, dargli da mangiare quello che ci pare o infiocchettarlo, anzi, ci costringe al confronto continuo anche contraddicendoci e magari pretendendo attenzioni e amore laddove vorremmo essere lasciati in pace, coccolati o forse anche serviti. MI viene in mente che Hitler mentre mandava a morire nelle camere a gas bambini, handicappati, zingari ed ebrei, ricopriva di amore i suoi due cagnolini al punto da suicidarli con lui per non farli cadere nelle mani dei vincitori. Stiamo vivendo un’epoca in cui ci allontaniamo sempre di più dall’umanità; da un lato ci robotizziamo vivendo quasi la totalità del tempo libero sui social illudendoci di essere in contatto con gli altri mentre fra le mani abbiamo solo un piccolo oggetto freddo e spesso anche mendace, e dall’altro raccontandoci di essere sensibili e buoni perché amiamo “gli animali che sono meglio degli uomini” come se noi non facessimo parte di questa categoria tanto vituperata.
Mi ha colpito un monologo di Leonardo Manera che suona più o meno così: “Quando andavo a scuola c’erano i pronomi io, tu, voi… ed erano tutti uguali, poi, “Io” ha cominciato a crescere e a pesare sempre di più e gli altri sono diventati sempre più piccoli … i selfie ... l’Io si ammala, va dal medico e sarebbe un buon inizio per poter guarire ma esce, si fa un selfie e tutto ricomincia.”
Sì, gli umani hanno davvero bisogno di essere adottati, ma come, da dove cominciare? Mi sembra un compito davvero enorme come il monte della mia infanzia perché implica il riconoscimento costante dei nostri limiti e delle nostre potenzialità che è insieme umiltà e fiducia che possono nascere solo dalla conoscenza profonda della nostra storia. Non parlo di un mero esercizio intellettuale ma del recupero di noi che va dalla nostra animalità che è ciò che ci lega alla terra (homo e humus hanno la stessa radice) a tutti gli aspetti culturali che fanno dell’essere umano il dominatore (anche questo con dei limiti) della terra. Ecco mi domando quanto noi si sia in grado di compiere questa grande impresa a partire da ognuno di noi, quanto si possa riconoscere e accogliere noi stessi adottando così la nostra umanità traballante così come traballante è la nostra capacità di accogliere, oscillando noi, continuamente, fra il mostro e l’eroe. Continuo a insistere sulla conoscenza “profonda” di noi e sullo sforzo costante che siamo chiamati a fare per poter trasmettere, al di là delle parole, che solo la conoscenza di noi e della nostra storia può aiutarci a capire chi siamo, a perdonarci le nostre mostruosità per poterle perdonare agli altri e ricordandoci che questa azione non è una volta per tutte, c’è da farlo continuamente, perché sempre, tutto ciò che non riconosciamo di noi viene proiettato sull’altro rendendolo non adottabile.
Mi piace anche ricordare che il mostro di Frankenstein, costruito con i pezzi migliori degli esseri umani nasce orribile e diventa un assassino perché rifiutato e non amato.