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Daniela Toschi

LA FERITA, L'ARCO E LA DIMENTICANZA DELL'UMANO


Nel 1941 Edmund Wilson, giornalista e critico letterario statunitense, pubblicò un saggio dal titolo “La Ferita e L’Arco”, in cui esaminava la vita e le opere di vari scrittori (Dickens, Kipling, Hemingway, etc) evidenziando come l’aver subito profonde ferite nel corso della vita aveva inciso significativamente sulla produzione letteraria. Suppongo che questa sia stata la prima raccolta di “psicografie” tesa a rilevare questo aspetto preciso. La ferita e l’arco menzionati nel titolo si riferiscono al Filottete di Sofocle, di cui parla estesamente nell’ultimo capitolo del libro. Sostanzialmente Wilson ci dice che “si avverte nel Filottete una concezione generale e fondamentale: il concetto di una forza superiore inseparabile dalla condizione di invalidità”. In realtà l’analisi di Wilson va molto oltre e il capitolo andrebbe letto per intero: mi pare che offra una stupefacente varietà di spunti e conferme su numerosi risvolti della ricerca psicotraumatologica più attuale.

Il mito non ci ha lasciato molte tracce di Filottete, che conosciamo essenzialmente come protagonista della tragedia di Sofocle. Wilson fa intanto notare che, contrariamente alle altre tragedie greche giunte a noi, questa ha un lieto fine, tanto che il termine tragedia non le si addice, meglio chiamarla dramma. Questo lieto fine (vedremo da cosa è determinato) è forse l’aspetto più interessante ...

Filottete, abilissimo arciere, in possesso oltretutto dell’arco invincibile di Eracle, si era imbarcato con l’esercito acheo per la guerra di Troia ma, durante una sosta, venne morso al piede da un serpente. Il fetore che emanava dalla ferita e i suoi lamenti erano insopportabili per i commilitoni che, con un inganno, prima di proseguire lo abbandonarono nell’isola deserta di Lemno (la persona ferita, si sa, infastidisce, bene dimenticarla da qualche parte e non pensarci più ...).

Il dramma di Sofocle è ambientato appunto a Lemno, e inizia con Filottete che lamenta il suo abbandono, la sua solitudine, le sue sofferenze.

Sono passati ben dieci anni dal giorno fatale del morso del serpente. La ferita non accenna a guarire, Filottete vive in una caverna arraggiandosi per sopravvivere e rimuginando sui torti subiti.

E intanto, altrove, Troia non accenna a cadere, i principali eroi (Achille e Aiace) sono morti, ed ecco che un indovino sentenzia che per vincere la guerra sono indispensabili l’arco di Filottete e Neottolemo, il giovanissimo figlio di Achille.

Lo scaltro Ulisse va a prendere Neottolemo, si reca con lui nell’isola di Lemno ed escogita le più perfide menzogne per ingannare di nuovo Filottete, allo scopo di derubargli l’arco o di trascinarlo a forza nella nave. Filottete, giustamente “ossessionato dal risentimento”, non avrebbe certo collaborato spontaneamente. Ovviamente il compito spetta a Neottolemo, il quale però si rifiuta di ingannare l’eroe ferito. Ostinato, non si lascia persuadere da Ulisse e decide di parlare schiettamente con Filottete. Questi, alla fine, accetta di “perdonare” la sua gente e si offre di aiutarla.

L’umana pietà e il senso di giustizia di Neottolemo si rivelano vincenti: veniamo a sapere infatti che l’arco di Filottete, da solo, non sarebbe servito a niente: soltanto l’eroe designato da Eracle, Filottete appunto, poteva scoccarvi le frecce.

I tre salpano alla fine per Troia e grazie a Filottete la guerra viene vinta (questo nella versione adottata da Sofocle, diversa da quella che ci è giunta attraverso i poemi omerici).

Insomma, l’eroe ferito viene emarginato, perché le ferite hanno cattivo odore e i suoi lamenti turbano le orecchie; ma, alla fine, è proprio lui che conduce alla vittoria. Non c’è vittoria se si lascia indietro qualcuno.

Il Filottete di Sofocle viene accostato al tema del trauma psichico anche da Richard Mollica in “Le Ferite Invisibili” (2006), quale prototipo di chi, dopo aver subito eventi terribili, viene abbandonato e ignorato dalla società, e tuttavia alla società si rivela indispensabile.

L’arco di Filottete rappresenta dunque il potente elemento propulsivo che sorge dalla ferita, dal trauma: trovo che il titolo che Edmund Wilson scelse per il suo saggio sia la sintesi perfetta del concetto di “crescita post-traumatica”, o, nella terminologia di Ferenczi, della “progressione traumatica”.

Ma Wilson si sofferma su aspetti ancor più importanti e inconsueti che fanno di questa tragedia attica una modernissima eccezione. D’altra parte Sofocle, si sa, era molto avanti nell’indagare e descrivere gli aspetti psicologici dei suoi personaggi e gli aspetti sociali delle vicende narrate. Wilson ha il merito di coglierli con un acume che trovo sorprendente per un letterato non “psy” che oltretutto scrive nel 1941.

Cito un passo che mi pare significativo: “La vittima di una malattia pestifera che la rende odiosa alla società e la degrada periodicamente e la riduce all’impotenza è anche in possesso di un’arte sovrumana che ognuno è costretto a rispettare e di cui l’uomo normale si accorge di aver bisogno. Un uomo pratico come Ulisse, ruvido e insieme astuto, immagina di potersi in qualche modo impossessare dell’arco senza doversi accollare l’uomo, o di poter rapire Filottete l’arciere senza doversi curare di Filottete l’invalido. Ma il giovane figlio di Achille è troppo saggio per crederlo.”

Giunto a Troia, la ferita di Filottete verrà curata dal figlio di Asclepio. Ma non è solo questa la guarigione. Essa richiede ben altro, come la nostra esperienza ci dice: deve superare l’inevitabile, tormentoso risentimento per il modo in cui la comunità lo ha trattato. Ed è grazie a Neottolemo che Filottete riesce a “perdonare”, ad accettare di rientrare nel gruppo che lo aveva escluso e ingannato. Cito ancora Wilson: “E’ proprio giusto che Filottete debba rifiutarsi di andare a Troia. Eppure è anche destino che egli verrà guarito quando avrà saputo dimenticare il proprio risentimento e avrà posto i suoi doni divini al servizio della propria gente. E’ giusto che egli debba rifiutare di prestarsi agli scopi di Ulisse, la cui sola idea è di sfruttarlo (...)”. Filottete accetterà di partire “solo attraverso la mediazione di uno che sia tanto schietto e tanto umano da trattare Filottete non come essere mostruoso, e neanche come un semplice strumento magico necessario a raggiungere un dato scopo, ma soltanto come un altro uomo, le cui sofferenze destano la sua simpatia, e di cui ammira il coraggio e l’orgoglio”. Neottolemo, appunto.

Il “tanto schietto” mi fa pensare all’“onestà dell’analista” di Ferenczi, onestà e trasparenza necessarie affinché il paziente traumatizzato si fidi e si affidi. Il “trattare come strumento magico in vista di uno scopo” mi fa invece pensare che spesso trattiamo gli altri esseri umani come gli animali domestici di cui parla Adele Di Florio: “li riduciamo a balocchi, oggetti narcisistici atti a soddisfare bisogni e desideri”.

Continua, poi, Wilson, affermando: “Quando questo rapporto umano è istituito, sembra dapprima che la conseguenza sia il fallimento dello scopo del viaggio e la rovina della campagna dei Greci. (...) Neottolemo ha bandito anche se stesso (...). Eppure nell’esporre la propria causa al rischio che è implicito nel riconoscimento di un’affinità umana col malato (...) egli spezza l’ostinazione di Filottete, e così lo guarisce e lo libera, e nello stesso tempo salva le sorti della compagnia.”

L’inconsueto lieto fine del Filottete di Sofocle è dovuto dunque al comportamento di una figura sui generis nella tragedia attica: Neottolemo, la cui umanità impedisce di perpetuare l’emarginazione e il disprezzo riservati a Filottete (come a molte persone traumatizzate). Questo personaggio illustra l’importanza del momento sociale positivo nell’evoluzione favorevole del trauma. Ma non solo: la sua saggezza gli consente di intuire quello che l’astuta intelligenza di Ulisse non giunge a comprendere: il contributo indispensabile che il traumatizzato offre al contesto. Infine, Neottolemo riesce, tramite la sua onestà e trasparenza, a ottenere il perdono di Filottete nei confronti del gruppo che lo aveva ingannato.

Quindi: non è solo questione di un arco, magico quanto si vuole perché appartenuto a Eracle; non è solo per le eccezionali capacità di arciere di Filottete, che si ottiene la vittoria...

Il fatto è che la guerra di Troia non sarebbe mai stata vinta finché, sull’isola di Lemno, un uomo abbandonato piangeva il suo destino di solitudine, soffrendo non tanto per la sua ferita, quanto per l’inganno e l’indifferenza della sua gente. L’arco, l’elemento propulsivo per la vittoria, era riaccogliere l’eroe ferito nella comunità che lo aveva ingiustamente escluso, e ottenere il suo perdono.

Neottolemo è una figura nuova che si profila nella tradizione attica?

Non so rispondere con certezza. E’ figlio di Achille, un eroe piuttosto primitivo ma con un fondo istintivo, naturale, di umanità e lealtà, che rivela più volte nei poemi omerici. Vedo ora Neottolemo come quel massiccio della Maiella descritto da Adele di Florio, alla cui base “c’era sempre un essere umano disposto a soccorrerci”: una figura che reca in sé qualcosa di solido, ostinato come pietra, antico. E’ forse, ancora citando Adele Di Florio, l’ homo-humus.

E’ l’astuto Ulisse, più probabilmente, l’uomo nuovo, quello che ci assomiglia, non a caso il più diffusamente conosciuto e citato tra gli eroi omerici. Ulisse che, però, tutto preso dal suo tessere trame, ha come rischio esistenziale la dimenticanza dell’umano.

Mi pare di cogliere un monito, un messaggio in bottiglia per noi da questo dramma che Sofocle scrisse quando era molto anziano; un invito a recuperare, come dice Adele, ciò che ci lega alla terra e alla spontaneità delle culture originarie. Credo che dopo il Filottete Sofocle abbia scritto Edipo a Colono...

In copertina: Jean Germain Drouais, Philoctète sur l'île de Lemnos. Musée des Beaux-Arts, Chartres


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