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DALLA “INDIFFERENZ” FREUDIANA ALLA PASSIONE DELLA CURA

Aggiornamento: 20 apr 2022

di Gianni Guasto

Il 7 giugno 1909, a uno Jung angosciato per le conseguenze di un coinvolgimento improprio nella relazione con Sabina Spielrein, Freud scriveva:


Esperienze del genere, sebbene dolorose, sono necessarie e difficilmente ci si può sottrarre ad esse. Solo dopo averle vissute si conoscono la vita e ciò con cui si ha a che fare. Quanto a me, non ci sono cascato del tutto, ma alcune volte mi ci sono trovato assai vicino e ho avuto a narrow escape. Io credo che soltanto le dure necessità in mezzo alle quali il mio lavoro si è svolto e i dieci anni di ritardo rispetto a Lei, prima che giungessi alla psicoanalisi, mi hanno preservato da esperienze analoghe. Ma non fa nulla. Ci si fa in tal modo la necessaria “pelle dura”, e si domina la “controtraslazione” in cui ci si viene a trovare ogni volta, e si impara a spostare i propri affetti e a piazzarli in modo opportuno. È a blessing in disguise.

Quello che risponde alle preoccupazioni di Jung con tono conciliante e consolatorio anziché moralistico e repressivo, è un Freud consapevole della differenza fra il percorso e la meta della propria libido -che è fondamentalmente quella del “Conquistatore”, dell’Annibale votato a passare alla Storia- e le tentazioni ben più umane e soprattutto carnali cui i suoi seguaci fatalmente andranno incontro.

L’epoca nella quale la scena si svolge è quella di una psicoanalisi ancora allo stato nascente, che, fino a questo momento ha incontrato soltanto pazienti di sesso femminile (almeno fino al 1905), e per di più isteriche. Donne della buona società viennese, imprigionate in un ruolo di fattrici domestiche in un mondo di uomini che bandisce ogni discorso sulla sessualità, relegandolo alla conversazione intima fra maschi, oppure al bordello.

Qui, al contrario, si creano situazioni di intimità emotiva fra un uomo e una donna, prima di allora compatibile soltanto con il sacramento della confessione, nelle quali la donna è invitata, sollecitata, e quasi costretta a rivelare i propri desideri nascosti, i propri timori e le proprie passioni, molte delle quali persino a lei stessa sconosciute.

E’ maledettamente facile che quella nuova disciplina scientifica che alcuni guardano malevolmente come “ebraica”, sospetta di antiscientificità e “affetta” da parentele non nascoste con l’ipnosi di Charcot e di Bernheim, scienziati che si avvalgono di concetti e asserzioni scientifiche non verificabili sul tavolo dell’anatomopatologo, possa aggiungere al discredito prontamente innalzato contro una nuova e presunta pseudoscienza, contro una “favola scientifica” (dirà Krafft-Ebing), anche un’accusa di immoralità.

Ma Freud -che probabilmente nulla sa delle recenti disavventure giudiziarie conseguenti a gravissime accuse cui è appena andato incontro il suo nuovo adepto Ernest Jones (Maddox 2006, pp. 35-48)- non sembra troppo preoccupato di questo. Ai seguaci che cominciano a circondarlo si limita a fornire scarni consigli tecnici, consapevole del fatto che, dal punto di vista operativo, dovranno per lo più cavarsela da soli. La psicoanalisi non è forse come una partita a scacchi di cui si possono prevedere e insegnare soltanto le mosse iniziali e finali, lasciando il grosso della partita allo svolgersi imprevedibile degli eventi?

La sua preoccupazione riguarda soprattutto la necessità di dimostrare che i dati e le informazioni di cui l’analista viene a conoscenza durante il suo lavoro, sono dati obiettivi. Un po’ come l’anatomopatologo, che seziona un corpo per indagarne gli organi interni. Nessuna confusione dev’essere possibile, quindi, fra il soggetto indagante e l’oggetto indagato. Lo sviluppo successivo della psicoanalisi dimostrerà che tutto ciò non è altro che un’illusione con cui sarà bene fare i conti. Ma su questo argomento mi soffermerò più avanti.

Pelle dura, distanza, indifferenz. A volte è possibile cadere in tentazione, ma un ripensamento dell’ultimo momento, una narrow escape (per il rotto della cuffia, diremmo noi), può persino essere il male che non viene per nuocere, o addirittura una benedizione, a blessing in disguise, capace di mantenere il conflitto al riparo da ogni inquinamento, da ogni confusione che renda impossibile isolarne l’origine e la natura.

E’ la mentalità dello scienziato. Nel perseguire ciò, Freud mette tutto il proprio investimento libidico: altro che la seduttività delle isteriche. In fondo, sono trascorsi soltanto pochi decenni da che Robert Koch ha messo a punto il sistema della “coltura pura”, l’unico con il quale si possano isolare i batteri e studiarne le caratteristiche biologiche, senza correre il rischio che il processo sia contaminato da operazioni di laboratorio. L’azione terapeutica dello psicoanalista deve perciò essere quella dello “specchio” del “chirurgo neutrale” (ancora l’antisepsi!) e soprattutto l’analista deve conservare il proprio anonimato.

Anonimato, neutralità e astinenza: sembra di ascoltare una regola monastica.

Ma le regole che Freud ha assicurato a se stesso per sopravvivere nella tempestosa traversata del deserto che si interpone fra paradigmi scientifici tanto divergenti, è destinata ad avere vita difficile e controversa.

Il primo a violarle è proprio lui. Chiunque entri nel suo studio ha davanti ai propri occhi tutt’altro che uno spettacolo anonimo e indecifrabile. La scrivania del Professore è stipata di preziosi reperti archeologici che moltissimo raccontano delle inclinazioni, delle passioni culturali e della mentalità del loro proprietario. E ancora l’anonimato non compare o si manifesta in maniera paradossale fra le sue preoccupazioni quando ospitando a casa propria la principessa Bonaparte nel periodo in cui essa è in analisi, rifiuta una partita a carte con lei perché si tratterebbe di una relazione troppo intima. O quando stabilisce che l’analisi di Ferenczi, anch’egli ospitato a casa Freud, dovrà svolgersi con due sedute giornaliere alternate al pranzo in famiglia e a conversazioni scientifiche che dovranno rigorosamente escludere la trattazione di problemi personali. O quando prende in analisi la figlia Anna.

Anonimato, neutralità, astinenza: parole dal significato diverso che troppo spesso si sovrappongono e si confondono, al punto che è difficile distinguerle, essendo probabilmente facce di una stessa medaglia.

La parola “astinenza” compare chiaramente negli scritti di Freud, a cominciare da Osservazioni sull’amore di traslazione (1914), nel quale non è solamente intesa come un atteggiamento di “giusta distanza” dell’analista dalle emozioni del paziente, ma in primo luogo dalla necessità di mantenere il paziente “astinente” per quanto possibile, dalla soddisfazione dei propri desideri inconsci, che sono, nel caso delle isteriche del primo periodo, identificati pressoché esclusivamente come desideri incestuosi.

La considerazione che, in obbedienza alla ricerca di soddisfazione transferale, l’analista non debba accondiscendere alle richieste della paziente è fin troppo ovvia (per quanto, anche al giorno d’oggi, neppure troppo di rado trasgredita), dal momento che risale addirittura all’antico Giuramento di Ippocrate: “mi asterrò … da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”. Essa va oltre e giunge a considerare la necessità di frustrare comunque, entro una certa non quantificabile misura, i desideri inconsci dei pazienti, affinché essi possano tornare ad essere coscienti e non agiti. Ricordare anziché ripetere.

Pelle dura, quindi, e ciò che Freud chiama, ripetutamente, indifferenza; una parola che non tarderà a causare nei lettori di Freud, qualche forma di disagio.

Il primo ad accorgersene è James Strachey, che, nella Standard Edition, traduce la parola "indifferenz” con il termine “neutrality”, neutralità. Molti anni dopo (2004) un importante esponente della tradizione relazionale come Emanuel Berman (2004, p. 90, 16n) definirà “annacquata” tale traduzione, forse pensando al giudizio pesante che di tale concetto ha dato Ferenczi fin dalla prima pagina del suo Diario Clinico.

E neppure la parola neutralità compare nel Dizionario di Rycroft così come nel Vocabulaire di Laplanche e Pontalis (1967, voce "Astinenza"), dove però spunta come l’altra faccia dell’astinenza, declinata sul versante dell’analista. Il Dictionnaire di De Mijolla, invece, sottolinea come la parola neutralità non compaia mai negli scritti di Freud, mentre compare la parola indifferenz concetto che, nel 1937, Edmund Bergler modificherà in “benevolent neutrality”, ad attenuarne il sospetto di fredda indifferenza.

Di ben diverso parere fu in proposito Ferenczi quando, alla fine di un lungo e tormentato (ma purtroppo incompleto) processo di emancipazione da Freud si decise a scrivere un Diario clinico, la cui prima giornata (7 gennaio 1933), intitolata “L’insensibilità dell’analista”, esordisce con queste parole:


Modo formale di salutare, ingiunzione rituale di “dire tutto”, attenzione cosiddetta fluttuante, che in ultima analisi è assenza di attenzione e, comunque, attenzione non adeguata alle comunicazioni degli analizzati, dense di emozioni ed esposte con grande difficoltà. Tutto ciò ha per effetto che il paziente: (1) sia offeso dalla mancanza o scarsità di interesse; (2) cerchi la causa della mancata reazione in se stesso, cioè nella qualità della sua comunicazione, non volendo pensare nulla di cattivo o svalutante al nostro riguardo; (3) dubiti della realtà del contenuto che prima era ancora così aderente al sentimento.

In questo modo il paziente re-introietta, si potrebbe dire introietta l'accusa rivolta verso di noi.


Una tale descrizione di ciò che Ferenczi altrove (Confusione di lingue, 1933) non esita a definire “ipocrisia professionale”, può legittimamente provocare disagio e riprovazione nell’analista che si senta onestamente interessato ai propri pazienti e non emotivamente così distante da loro; e tuttavia occorre apprezzare non solo l’avvertimento che interpretazioni o silenzi troppo unilaterali possano “seppellire” dentro al paziente voci di protesta assolutamente preziose e indispensabili al lavoro analitico, ma anche l’onestà di Ferenczi nel descrivere una condizione riscontrata nella propria esperienza professionale con una paziente particolarmente difficile, con la quale l’ammissione da parte dell’analista del proprio disagio e dei propri limiti di comprensione impresse alla relazione la forza per uscire da una situazione di stallo. Lungi dal voler stigmatizzare il problema della neutralità come un baco capace di compromettere l’intero edificio psicoanalitico, Ferenczi prova, poche righe più sotto a fornire un’indicazione preziosa volta a superare la difficoltà precedentemente enunciata e, soprattutto, a prevenirne la cronicizzazione:


La reazione a questa accusa (mai spontaneamente espressa dal paziente e che l'analista dovrà percepire da solo) può soltanto essere quella di considerare in modo critico il proprio comportamento e il proprio atteggiamento emotivo, secondo quanto si è detto, e di ammettere la possibilità, anzi la realtà, della stanchezza, della monotonia e della noia. Tuttavia, dopo un tale qui pro quo, cresce spontaneamente l’interesse: il tono e i gesti diventano più naturali, le frasi pronunciate e le repliche più sciolte, le domande e le risposte più spontanee e valide.


Una tale presa di posizione, mette parzialmente in discussione i concetti di anonimato e di neutralità, che avrebbero comunque avuto vita difficile a causa delle interpretazioni radicali che ne vennero date per molti decenni dopo la scomparsa di Freud, con conseguenze che Cremerius (1991) definisce “nefaste”, a causa di forme estreme, o addirittura fanatiche di applicazione del principio, come, per esempio, la raccomandazione di non stringere la mano al paziente al momento del saluto o la denigrazione subita da Leo Stone per aver espresso le proprie condoglianze a un paziente che aveva perso il padre.

Poiché Ferenczi subì una damnatio memoriae proseguita per oltre sessant’anni, i suoi consigli vennero ignorati (anche per le difficoltà incontrate da Balint nel tradurne le opere e la lunga odissea che ne seguì).

E tuttavia, quel processo iniziato traumaticamente nel 1924 con la rivalutazione da parte di Ferenczi e Rank della “ripetizione” in analisi, da loro considerata inevitabile e suscettibile di essere provvista di significato, avrebbe continuato a germogliare sottoterra dando luogo, passando per la prospettiva del new beginning enunciata da Balint, a molti contributi fondamentali quali, il concetto di holding in Winnicott e il concetto di funzione alfa in Bion.

Perché dico questo? Perché la psicoanalisi succedutasi alla morte di Freud e all’esplosione delle “Discussioni Controverse” dei primi anni Quaranta diede luogo a sviluppi che portarono il pensiero psicoanalitico a distaccarsi dalle proprie origini per raggiungere l’approdo delle relazioni primarie, nelle quali il rapporto materno implica ben prima della ricerca della soddisfazione del desiderio e della ricerca dell’oggetto, qualcosa di più basilare: ovvero la ricerca della relazione con l’oggetto, di un legame cioè che di per sé rimanda all’insopprimibile e naturale desiderio del soggetto di aggrapparsi per sopravvivere anziché lasciarsi “cadere all’indietro, nella non-esistenza” come avverte allarmato Ferenczi nel descrivere un possibile destino del bambino mal accolto alla nascita.

Una nuova attenzione alla relazione primaria, implica per l’analista un cambiamento di paradigma: entra in crisi il modello “schermo opaco”, così come l’idea di un analista paragonato all’arbitro di una partita di tennis che guarda dall’alto lo svolgersi del conflitto e aspira a diventare una funzione della mente: obiettivo ambizioso e degno del massimo rispetto, ma conseguibile soltanto in seguito all’introiezione di un oggetto che sia anche reale.

Siamo quindi di fronte a una situazione che ha ormai perso interesse per quell’iniziale preoccupazione epistemologica di Freud secondo la quale lo sguardo dell’osservatore avrebbe potuto contaminare l’oggetto dell’indagine. La psicoanalisi è cresciuta, si è affermata e gli occhi severi dei maestri viennesi degli esordi si sono spenti per sempre.

L’approccio unipersonale, dello schermo opaco sul quale si riflettono le proiezioni pure del transfert senza correre il rischio di essere travisate a causa delle “controproiezioni” dell’analista deve cedere il passo a un nuovo approccio epistemologico, secondo il quale, come osserverà Franco Borgogno nel 1978, “il limitare il campo di osservazione a ciò che è direttamente visibile, o passibile di isolamento, comporta pur sempre un riduzionismo metodologico che certo non permette di comprendere esaustivamente i fenomeni e la realtà. La ricerca scientifica neppure può permettersi di procedere unicamente per dissezione e segmentazione dell'oggetto di studio; diversamente come termine di indagine si avvale di un “cadavere” e non di un essere o di un sistema vivente” (p. 22), tanto più che l'interazione fra osservatore e oggetto di indagine è presente persino in fisica, dove “uno strumento può scambiare energia con il fenomeno e quindi produrre una deviazione dell’ago e una distorsione della scala graduata” (p. 23n).

L'individuo, prosegue Borgogno, a diversità di altri oggetti di osservazione è un «oggetto vivo». (…) Per comprenderlo sono quindi necessari non tanto i cinque sensi, quanto il linguaggio, l'identificazione, la funzione di contenimento, l'uso del proprio Sé, e soprattutto la relazione, con tutto ciò che essa comporta. Mentre in fisica l'osservatore si può limitare a essere spettatore, in psicologia egli diviene il principale strumento di analisi” poiché in tale contesto egli “non può affidarsi principalmente alla percezione bensì deve utilizzare la propria esperienza l'immaginazione e l’empatia” (p. 23).

Sull’onda lunga di Ferenczi e della sua esplosiva trasgressione delle regole canoniche, si fanno quindi strada lo stile materno, l’ammissione dell’esistenza di una relazione reale accanto a quella transfert-controtransferale, la teoria del campo, l’intersoggettività, come esiti di questo lungo processo. E infine la self-disclosure che ogni volta ci affrettiamo a proclamare “giudiziosa”, nella preoccupazione che essa possa lambire o travolgere l’irrinunciabile limite dell’asimmetria, senza sapere esattamente, a priori, quale sia il confine che possiamo avvicinare e a che punto il varcarlo possa compromettere il nostro lavoro.

Se devo riferire qualcosa della mia esperienza personale in materia, posso citare due esempi che definiscono la mia personale oscillazione fra un polo e l’altro della difficile antinomia che esiste fra neutralità e partecipazione affettiva nella relazione con il paziente. E tutti i rischi che ciò ha comportato e comporta: non sono certo qui a parlarvi di successi terapeutici, d’altra parte, ma semmai di difficoltà, incertezze e fallimenti incontrati durante un lungo percorso.

Il primo riguarda l’educazione che ricevetti molti anni fa: ricordo ancora le parole del mio principale supervisore che mi raccomandava che, ogni volta che avrei sentito un adolescente parlar male dei propri genitori non avrei dovuto in nessun caso assumere una posizione di parte.

Più che giusto, si può affermare in linea generale: ma la realtà può portarci altrove.

Ciò mi accadde nel corso di una pluridecennale esperienza con bambini e adolescenti appartenenti a famiglie problematiche nelle quali erano presenti alcolismo, tossicodipendenza, gravi depressioni post-partum andate incontro a cronicizzazione, e persino situazioni di bambini abbandonati, violentati psicologicamente da genitori deliranti che pretendevano di imporre loro, con modalità sempre minacciose o terrificanti, le proprie certezze paranoidi; e inoltre maltrattamenti fisici e abusi sessuali. Di fronte a una tale realtà mi fu proprio impossibile evitare di “prendere le parti” delle vittime rispetto alle relazioni distruttive che avrebbero inevitabilmente compromesso il loro futuro. Non farlo, mantenere una posizione “equidistante” sarebbe significato colludere con gli introietti perversi e persecutori inevitabilmente presenti nel processo di vittimizzazione di chi non ha la possibilità di sottrarsi, o di reagire o comunque di riconoscere dentro di sé la colpevolezza dell’altro anziché la propria, eletta a redenzione di realtà parentali irredimibili.

Non fu facile. Non fu facile sottrarsi alle ritorsioni di quell’oggetto persecutorio che ha una forza quasi irresistibile nell’alimentare il disperato bisogno masochistico della vittima. Ma un tale confronto rischia anche di produrre l’effetto opposto, attraverso quella che Emanuel Berman (1997), con il nome di “fantasia salvifica” indica come un insidioso rischio insito nella nostra professione. Se siamo cavalieri destinati a sconfiggere il drago, allora diventa altissimo il rischio che la nostra lancia trafigga, anziché il drago, la vergine.

E qui veniamo al secondo esempio nel quale la mia partecipazione affettiva giunse a perdere, sia pure soltanto dentro di me e senza alcun comportamento agito, il contatto con quello che era stato il suggerimento pressante di perseguire la neutralità.

Durante un’analisi interrottasi precocemente alla fine del secondo anno, condivisi le emozioni di una signora (che chiamerò Sofia) già in là negli anni che mi narrò la vicenda di una relazione incestuosa con il padre, protrattasi dall’età di quattro anni fino all’adolescenza e che le fece attraversare l’esperienza devastante di una gravidanza d origine paterna, e di un aborto subito con la consapevolezza di entrambi i genitori, durante la prima adolescenza.

Sofia, reduce da due esperienze psicoterapeutiche non andate a buon fine, mi era stata inviata da un collega che lei aveva conosciuto in contesti non professionali. Il collega, messo a parte dalla signora della propria vicenda e di talune difficoltà ascrivibili a un difetto di empatia da parte di un analista precedente, l’aveva inviata a me, rassicurandola sul fatto che io, negli anni, avevo maturato una prolungata esperienza con situazioni di abuso sessuale.

L’ascolto di quelle vicende favorì in me lo sviluppo in forma negativa di quello che Racker (1968) chiama “controtransfert complementare”, ovvero indirizzato agli oggetti. La mia interna riprovazione per tale situazione familiare si indirizzava verso entrambi i genitori, dal momento che la madre aveva incoraggiato la figlia a soddisfare sessualmente il padre al fine, diceva lei, di “calmarlo”.

Io non riesco a ricordare episodi nei quali mi siano sfuggite parole di riprovazione o di moralistica condanna per il comportamento dei genitori della paziente; ma probabilmente ci furono, dal momento che, verso la fine del secondo anno, ebbi da lei la notizia che l’unico orgasmo della sua vita lo aveva sperimentato con il padre. La confessione giungeva al culmine di un periodo nel quale la paziente aveva a lungo parlato di un re storicamente vissuto nel regno di Napoli che aveva lo stesso soprannome del padre, e che, nonostante fosse un despota, aveva compiuto opere di beneficenza e di sostegno a popolazioni povere e indigenti, oltre ad intrattenere proficue relazioni commerciali con i genovesi, peraltro miei conterranei.

Quando mi confessò la sua unica esperienza orgasmica, osservai che mi stava mostrando una parte di sé alleata con il padre; e siccome mi stava dicendo di temere la mia riprovazione, osservai anche che si sentiva alleata con il padre padrone contro di me, supposto paladino nella lotta contro la pedofilia.

In capo a un mese, la paziente mi comunicò che le era stata diagnosticato un carcinoma a un seno, aggiungendo che la mammella colpita era quella che suo padre aveva sempre prediletto. Le cure urgenti e invasive che furono necessarie ad arrestare e a guarire, fortunatamente, la neoplasia, furono l’occasione che portò all’interruzione dell’analisi. Durante l’ultima seduta mi confessò di aver sempre provato disagio nello stare sdraiata sul lettino, a causa del timore, cui non aveva mai fatto alcun cenno, che io potessi abusare di lei. Dopo circa un mese dall’interruzione, mi fece pervenire una sua poesia, che non posso qui leggervi per ragioni di riserbo, ma che faceva il nome di un noto scrittore esaltando il fatto che, pur essendo stato. dichiaratamente antifascista, non aveva partecipato alla lotta di Liberazione. Voleva dirmi, in sostanza, che avendo io “fatto la guerra alla pedofilia”, non l’avevo aiutata, (e che l’avevo esposta, pensai io, a un grave pericolo di ritorsione come quello cui sono soggetti gli ostaggi e gli scudi umani).

Tale esperienza fu da me ripensata a lungo, e ne sortirono un paio di relazioni congressuali centrate sul tema dell’analisi delle relazioni incestuose. Ma mi occorse molto tempo prima che potessi raggiungere la piena consapevolezza del fatto che la paziente aveva assolutamente ragione: ero stato io, io soltanto, e non lei, a considerarmi “paladino” nella lotta contro l’abuso sessuale, una disposizione emotiva insufficientemente autoanalizzata che aveva finito per danneggiarla. Non era impossibile, infatti, ipotizzare che l’improvviso sviluppo della neoplasia mammaria, fosse la controffensiva di un cattivo introietto con il quale non avevo voluto scendere a compromessi, e che aveva il potere di ritorsione sulla vittima. Se avevo combattuto contro il drago, avevo finito per trafiggere la vergine, dovendo poi mestamente battere in ritirata. La paziente, per fortuna, oggi sta bene.

Ho voluto raccontare questo episodio per illustrare come la scelta del punto esatto nel quale porsi a distanza dal paziente possa non essere semplice, o automaticamente applicabile in base a una regola ferrea che sia puntata come un’arma contro il senso identitario dell’analista: se non stai dentro questi formati, la tua stessa identità professionale (e, in larga parte personale) “scadrà” a un rango inferiore, e la tua conversazione psicoanalitica diverrà una “conversazione ordinaria”, cioè “banalmente” psicoterapeutica, perdendo ogni potere taumaturgico.

Se si seguono le indicazioni di Ferenczi, si può avere la misura di ciò che, agendo in maniera formale e aderente al canone, sfugge alla comprensione e al controllo dell’analista: di ciò che un silenzio o una mancata risposta possono seppellire per sempre nell’inconscio del paziente.

Il mio eccesso di zelo nel combattere gli introietti che opprimevano Sofia, non può certo essere bilanciato, come antidoto, dalla sordità di Freud che mostra di ignorare l’indegno mercimonio di cui è vittima Dora. E la risposta, nella quale lo schiaffo dato al signor K. risuona come un’allusione transferale, non si fa attendere. Licenziato “come una persona di servizio”; Freud deve arrendersi a ciò che non vuol vedere. Quel semplice moto di rabbia e di dignità, tuttavia, non impedirà a Ida Bauer di condurre una vita infelice, priva com’è del riscontro di un amore paterno e materno che non verranno mai.

Diverso fu il destino di Elizabeth Severn, la paziente con la quale Ferenczi compì l’inaudito esperimento dell’analisi reciproca. A fronte di aggressioni incomparabilmente più gravi di quelle, soltanto morali, patite da Dora, Ferenczi non mostrerà mai una particolare animosità nei confronti di un persecutore tanto efferato quanto lo fu, nella realtà, il padre della paziente; o almeno ciò non può essere ricavato in alcun punto della complessa narrazione del caso che si dispiega fra Il Diario Clinico e l’opera della paziente stessa, The Discovery of the Self, recentemente ripubblicato a cura di Peter Rudnytsky.

Ma tutti, quali che siano i nostri bersagli, siamo in cammino verso il compimento di un destino individuale, che perseguiamo attraverso la ricerca di ciò che ci rispecchia nella vicenda personale dell’altro. Con buona pace di chi malevolmente afferma che il “medico della mente” cura gli altri per sanare le proprie ferite, noi possiamo serenamente permetterci di affermare che tutto ciò è assolutamente vero; e che solo questa irraggiungibile meta è ciò che giustifica il nostro ostinato procedere, che non può essere spiegato altrimenti che come una passione.

Nella sua adirata reprimenda agli esperimenti che Sándor Ferenczi realizzò negli ultimi anni della propria vita, Freud accusò il discepolo di furor sanandi e quanto scrive la Severn nella sua opera parzialmente autobiografica, sembra dargli decisamente torto.

Nelle aspre parole di Freud, il comportamento di Ferenczi, di cui peraltro il primo aveva scarsa conoscenza, era descritto come una forma di insania che distrae il medico da obiettivi terapeutici realisticamente perseguibili.

José Jiménes Avello (2004) confuta l’opinione di Freud, sostenendo che, piuttosto che di furor, sarebbe più esatto parlare di animus sanandi. Anche tale definizione, tuttavia, mi pare insoddisfacente, perché, come sostengo nel mio libro La passione della cura (2016, p. 239), “nella ricerca di Ferenczi vi è indubbiamente una connotazione febbrile spinta da una passione di ricerca del tutto rispettosa dell’alterità del paziente, quella passione che spinge a ricercare se stessi nell’altro, così come il bambino in un celebre lavoro di Winnicott (1967) cerca e definisce se stesso e l’altro-da-sé rispecchiandosi nello sguardo della madre”.

Tale passione aveva accompagnato incessantemente la ricerca di Ferenczi fin dagli esordi della sua carriera di psicoanalista e fu per lungo tempo tenuta a freno, come sappiamo dalla testimonianza di Lou von Salomé che, fin dal 1913 aveva colto con grande sensibilità e precisione il conflitto che attraversava il compagno di studi, diviso fra un autentico “ribollire di idee” e la preoccupazione di non dispiacere a Freud, che gli impose di mettere a tacere ogni obiezione, come accadde nel 1910, al tempo del noto “incidente di Palermo”.

Così, anziché interpretare la disposizione di Ferenczi come animus: cioè inclinazione, proposito, credo sia più aderente al personaggio parlare di “passione” della cura, passio curandi; perché Ferenczi non è soltanto un medico accogliente e scrupoloso nell’accogliere il paziente, ma è animato da un bisogno incessante di conoscenza che lo porta a guardare più in là, a cercare, nello specchio del paziente, qualcosa che lo riguarda intimamente. E ciò che racconta la Severn (1933) nel proprio libro parzialmente autobiografico sembra confermare il fatto che, almeno per ciò che riguardò lei, non fu affatto quel danno che si paventa quando si parla di accanimento terapeutico, parola con la quale descriviamo più esattamente oggi il furor sanandi.

Purtroppo, il destino dell’analista non fu altrettanto pacificato quanto quello della paziente che gli sopravvisse per molti anni conducendo una vita equilibrata e lontana dalle angosce psicotiche che l’avevano condotta ad attraversare l’oceano, alla ricerca della propria salvezza. Ferenczi morì per non essere riuscito a emanciparsi dall’aggrappamento a una “potenza superiore”, come egli scrive nell’ultima pagina del Diario; per non essere riuscito a “individuarsi” del tutto, anche a costo di uccidere il padre.


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Relazione letta al XVII Joint Meeting AAPDP-OPIFER: Cura e Psicoanalisi oggi: Clinica, verificabilità, diagnosi, linee guida. Firenze, 19 Ottobre 2019, Auditorium della Cassa di Risparmio di Firenze.


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